La legge 162/2021 è solo una delle ultime normative che puntano a tutelare le pari opportunità tra uomini e donne in ambito lavorativo e, tra le tante tematiche trattate, si occupa anche di equità remunerativa, che ancora oggi stenta a raggiungersi.
L’unico caso in cui il salario femminile è superiore a quello maschile è per il ruolo di CEO in cui, secondo i dati di ODM Consulting, le donne che ricoprono questo incarico guadagnano circa il 5% in più rispetto ai loro colleghi uomini.
Da sottolineare però che il numero di donne che ricopre un ruolo esecutivo risulta ancora molto ridotto nonostante le leggi dedicate.
La Legge Golfo-Mosca (n.120/2011), per esempio, prevedeva che “almeno un terzo delle quote dell’organo sociale fosse destinato al genere meno rappresentato”, questa quota è aumentata poi con la legge 160/2019 per raggiungere i due quinti dell’organo. Benché questi due provvedimenti siano entrati in vigore anni fa, analizzando l’attuale composizione media dei CdA, su un 40% di quote rosa, solamente il 6% ricopre un ruolo esecutivo.
Se poi si estende lo sguardo agli altri ambiti professionali, nella stragrande maggioranza degli altri ruoli, a parità di impiego, le condizioni remunerative delle lavoratrici restano inferiori.
La differenza salariale, che di norma non è intenzionale, deriva spesso da un’ingiustificata diversità nei criteri di valutazione del lavoro e delle prestazioni di uomini e donne, che si appoggia su stereotipi di genere estremamente radicati.
La disparità tra le remunerazioni dei sessi può essere di due tipi: diretta o indiretta. Nel primo caso i lavoratori e le lavoratrici percepiscono salari minimi diversi, nel secondo, invece, è dovuta alla maggioranza di contratti con orario di lavoro parziale (come, per esempio, i part-time). Qualunque tipo di disparità remunerativa si prenda in considerazione, sono evidenti anche le ripercussioni sociali.
Uno stipendio più basso pesa sia sulle assicurazioni sociali che sulle rendite, oltre al fatto che lo Stato deve investire maggiormente negli aiuti alle categorie più fragili, incassando al contempo meno contributi e registrando introiti fiscali inferiori ad un paese con una minore discriminazione remunerativa.